La leggenda dell’Arcobaleno (La leggenda dei colori)

La leggenda dell’Arcobaleno
(La leggenda dei colori)

Un giorno i colori decisero di riunirsi per stabilire chi tra loro fosse il più importante.
Il verde si propose subito come meritevole di ricevere il primato, dicendo:
“Guardatevi intorno, contemplate la natura, osservate le colline, le foreste e le montagne e vi renderete conto come, senza di me, non esista vita.
Io sono il colore dell’erba, degli alberi, delle praterie sconfinate.
Io rappresento la primavera e la speranza.”

Il blu si fece avanti commentando:

“Tu sei troppo occupato a guardare la terra, sei troppo preso dalla realtà che ti circonda.
Alza un po’ gli occhi verso il cielo, contempla la vastità e la profondità dei mari e lì scoprirai la mia presenza.
Io sono il colore della profondità, che abbraccia l’universo.
Io rappresento la pace e la serenità.”
Non appena il blu ebbe finito il suo commento, intervenne il giallo:
“Ma voi siete colori troppo seri!
Il mondo ha bisogno di luce e di gioia.
Io sono il colore che porta il sorriso nel mondo.
Del mio colore si vestono il frumento e i girasoli, le stelle della notte e il sole che illumina ogni cosa.

Io rappresento l’energia e la gioia.”

Timidamente si fece avanti l’arancione dicendo:
“Io sono il colore che annuncia il giorno e poi lascio tracce della mia presenza all’orizzonte, all’ora del tramonto.
Del mio colore si vestono le carote, i mango ed i papaya perché, dove sono presente, assicuro vitamine e una vita sana.
Io rappresento il calore e la salute.”
Il rosso, a voce alta, non diede il tempo di terminare all’arancione, e sicuro di se disse:
“Ma voi, state ancora discutendo su chi sia il più importante?

Ma non vi accorgete che io rappresento la vita?

Sono il colore del sangue, della passione, dei martiri e degli eroi.
Di me si vestono i papaveri ed i gelsomini; dove sono presente sono il centro dell’attenzione perché rappresento l’intensità e l’amore!”
Mentre il rosso stava ancora difendendo il suo caso, solenne e regale avanzò il viola:
“Io non ho bisogno di parlare, di propormi o di difendermi.
Il mondo mi conosce e quando passo si inchina.
Io rappresento la regalità:
del mio colore si vestono i re, i principi e gli uomini di chiesa.
Io rappresento l’autorità, ciò che è sacro e misterioso!”
Si presentarono altri colori, ognuno con le proprie ragioni, e si accese un animato dibattito riguardo a chi spettasse il primato.
All’improvviso si udì un tuono seguito da diversi fulmini e da una pioggia scrosciante.
I colori intimoriti fuggirono, si aggrapparono l’uno all’altro e, improvvisamente, sentirono la voce della pioggia:

“Quanto siete sciocchi!

Perché vi preoccupate di chi tra voi è il più importante?
Non vi accorgete che Dio vi ha creati diversi perché ciascuno possa onorarlo attraverso la propria specificità e bellezza?
Orsù, venite con me!”
Detto questo, prese i colori e si diresse verso l’orizzonte e con un ampio gesto tracciò un arcobaleno nel cielo, dicendo:
“Il vostro scopo non è di primeggiare, ma di armonizzare i vostri colori formando arcobaleni!”

Brano tratto dal libro “Sii un girasole accanto ai salici piangenti.” di Arnaldo Pangrazzi. Edizione Camilliane.

La cipolla e la signora avara

La cipolla e la signora avara

Lo scrittore russo Dostoevskj racconta la storia di una signora ricca ma molto avara che, appena morta, si trovò davanti un diavolaccio che la gettò nel mare di fuoco dell’inferno.
Il suo angelo custode cominciò disperatamente a pensare se per caso non esistesse qualche motivo che potesse salvarla.
Finalmente si ricordò di un lontano avvenimento e disse a Dio:
“Una volta la signora regalò una cipolla del suo orto a un povero.”

Dio sorrise all’angelo:

“Bene.
Grazie a quella cipolla si potrà salvare.
Prendi la cipolla e sporgiti sul mare di fuoco in modo che la signora possa afferrarla, poi tirala su.
Se la tua signora rimarrà saldamente attaccata alla sua unica opera buona potrà essere tirata fino in paradiso.”
L’angelo si sporse più che poté sul mare di fuoco e gridò alla donna:
“Presto, attaccati alla cipolla.”
Così fece la signora e subito cominciò a salire verso il cielo.
Ma uno dei condannati si afferrò all’orlo del suo abito e fu sollevato in alto con lei;

un altro peccatore si attaccò al piede del primo e salì anche lui.

Presto si formò una lunga coda di persone che salivano verso il paradiso attaccate alla signora aggrappata alla cipolla tenuta dall’angelo.
I diavoli era preoccupatissimi, perché l’inferno si stava praticamente svuotando, incollato alla cipolla.
La lunghissima fila arrivò fino ai cancelli del paradiso.
La signora però era proprio un’avaraccia incorreggibile e, in quel momento, si accorse della fila di peccatori attaccati al suo abito e strillò irritata:

“La cipolla è mia!

Solo mia!
Lasciatemi…”
In quel preciso istante la cipolla si sbriciolò e la donna, con tutto il suo seguito, precipitò nel mare di fuoco.
Sconsolato, davanti ai cancelli del paradiso, rimase solo l’angelo custode.

Brano tratto dal libro “Cerchi nell’acqua.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il testamento di un albero

Il testamento di un albero

Un albero di un bosco chiamò gli uccelli e fece testamento:
“Lascio i miei fiori al mare, lascio le foglie al vento,
i frutti al sole e poi
tutti i semi a voi.

A voi, poveri uccelli,

perché mi cantavate le canzoni
della bella stagione.
E voglio che gli sterpi,

quando saranno secchi,

facciano il fuoco per i poverelli.

Però vi avviso che sul mio tronco
c’è un ramo che dev’essere ricordato

alla bontà degli uomini e di Dio.

Perché quel ramo, semplice e modesto, fu forte e generoso: e lo provò
il giorno che sostenne un uomo onesto quando ci si impiccò”.

Brano di Trilussa

Perché, nonostante tutto, è possibile essere felici!

Perché, nonostante tutto, è possibile essere felici!

Da oggi in poi, tutti i giorni, quando mi sveglio, dirò:
Oggi io sono felice!
Mi ricorderò di ringraziare il sole, per il suo caldo e la sua luminosità.
Sentirò che sto vivendo, respirando.

Potrò sfruttare tutte le risorse della natura, gratuitamente.

Non avrò bisogno di comperare il canto degli uccelli, neanche il mormorio della riva del mare.
Ricorderò di sentire la bellezza degli alberi e dei fiori nelle sublimi ore della mattina.
Sorriderò sempre quando è possibile.
Cercherò di coltivare più amicizie e neutralizzare le inimicizie.
Non giudicherò gli altri, i compagni e gli amici.
Ricorderò di telefonare ad un amico per fargli capire che sento la sua nostalgia, riserverò minuti di silenzio per avere l’opportunità di ascoltare.

Non mi lamenterò!

Avrò sempre in mente che un minuto trascorso non ritorna più!
Approfitterò meglio di tutti i minuti della vita.
Non soffrirò in anticipo, pensando al futuro incerto, o ricordando le cose passate.
Non penserò a ciò che non ho e mi piacerebbe avere.
Come posso essere felice con quello che ho?

Il dono più grande è la propria vita.

Voglio ricordare di leggere una poesia e dedicarla a qualcuno/a.
Non mi aspetto niente in cambio, soltanto il piacere vedere il sorriso di un amico.
Voglio ricordare che esiste qualcuno che mi vuole bene.
E, quando la notte arriva, guarderò il cielo, le stelle e la luna, e ringrazierò gli angeli e Dio perché, nonostante tutto, è possibile essere felici!

Brano senza Autore, tratto dal Web

Signore, lasciami prendere il tuo posto

Signore, lasciami prendere il tuo posto

Il vecchio eremita Sebastiano pregava di solito in un piccolo santuario isolato su una collina.
In esso si venerava un crocifisso che aveva ricevuto il significativo titolo di “Cristo delle Grazie.”
Arrivava gente da tutto il paese per impetrare grazie e aiuto.
Il vecchio Sebastiano decise un giorno di chiedere anche lui una grazia e, inginocchiato davanti all’immagine, pregò:
“Signore, lasciami prendere il tuo posto.
Voglio soffrire con te.
Voglio stare io sulla croce.”
Rimase silenzioso con gli occhi fissi alla croce, aspettando una risposta.

Improvvisamente il Crocifisso mosse le labbra e gli disse:

“Amico mio, accetto il tuo desiderio, ma ad una condizione:
qualunque cosa succeda, qualunque cosa tu veda, devi stare sempre in silenzio!”
“Te lo prometto, Signore.” rispose Sebastiano.
Avvenne lo scambio.
Nessuno dei fedeli si rese conto che ora c’era Sebastiano inchiodato alla croce, mentre il Signore aveva preso il posto dell’eremita.
I devoti continuavano a sfilare, invocando grazie, e Sebastiano, fedele alla promessa, taceva.
Finché un giorno…
Arrivò un riccone e, dopo aver pregato, dimenticò sul gradino la sua borsa piena di monete d’oro.

Sebastiano vide, ma conservò il silenzio.

Non parlò neppure un’ora dopo, quando arrivò un povero che, incredulo per tanta fortuna, prese la borsa e se ne andò.
Né aprì bocca quando davanti a lui si inginocchiò un giovane che chiedeva la sua protezione prima di intraprendere un lungo viaggio per mare.
Ma non riuscì a resistere quando vide tornare di corsa l’uomo ricco che, credendo che fosse stato il giovane a derubarlo della borsa di monete d’oro, gridava a gran voce per chiamare le guardie e farlo arrestare.
Si udì allora un grido:
“Fermi!”
Stupiti, tutti guardarono in alto e videro che era stato il crocifisso a gridare.
Sebastiano spiegò come erano andate le cose.
Il ricco corse allora a cercare il povero.
Il giovane se ne andò in gran fretta per non perdere il suo viaggio.
Quando nel santuario non rimase più nessuno, Cristo si rivolse a Sebastiano e lo rimproverò:

“Scendi dalla croce.

Non sei degno di occupare il mio posto.
Non hai saputo stare zitto!”
“Ma, Signore!” protestò, confuso, Sebastiano, “Dovevo permettere quell’ingiustizia?”
“Tu non sai,” rispose il Signore, “che al ricco conveniva perdere la borsa, perché con quel denaro stava per commettere un’ingiustizia.
Il povero, al contrario, aveva un gran bisogno di quel denaro.
Quanto al ragazzo, se fosse stato trattenuto dalle guardie avrebbe perso l’imbarco e si sarebbe salvato la vita, perché in questo momento la sua nave sta colando a picco in alto mare!”

Brano tratto dal libro “C’è qualcuno lassù.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La bambola di sale

La bambola di sale

Una bambola di sale voleva ad ogni costo il mare.
Era una bambola di sale, ma non sapeva che cosa fosse il mare.
Un giorno decise di partire.
Era l’unico modo per soddisfare la sua esigenza.
Dopo un interminabile pellegrinaggio attraverso territori aridi e desolati, giunse in riva al mare e scoprì qualcosa di immenso, affascinante e misterioso nello stesso tempo.
Era l’alba, il sole cominciava a sfiorare l’acqua accendendo timidi riflessi, e la bambola non riusciva a capire.
Rimase lì impalata a lungo, solidamente piantata al suolo, la bocca aperta.
Dinanzi a lei, quell’ estensione seducente.

Si decise.

Domandò al mare:
“Dimmi chi sei?”
“Sono il mare.” rispose.
“E che cos’è il mare?” chiese la bambola di sale.
“Sono io!” rispose il mare.
“Non riesco a capire, ma lo vorrei tanto.
Spiegami che cosa posso fare.” esclamò la bambola.
“E’ semplicissimo: toccami…” disse il mare.
Allora la bambola si fece coraggio.

Mosse un passo e avanzò verso l’acqua.

Dopo parecchie esitazioni, sfiorò quella massa con un piede.
Ne ricavò una strana sensazione.
Eppure aveva l’impressione di cominciare a comprendere qualcosa.
Allorché ritrasse la gamba, si accorse che le dita dei piedi erano sparite.
Ne risultò spaventata e protestò:
“Cattivo!
Che cosa mi hai fatto?
Dove sono finite le mie dita?”
Replicò imperturbabile il mare:
“Perché ti lamenti?
Semplicemente hai offerto qualche cosa per poter capire.
Non era quello che chiedevi?

L’altra patì:

“Sì veramente, non pensavo, ma…”
Stette a riflettere un po’.
Poi avanzò decisamente nell’acqua.
E questa, progressivamente, la avvolgeva, le staccava qualcosa, dolorosamente.
Ad ogni passo, la bambola perdeva qualche frammento.
Ma più avanzava, più si sentiva impoverita di una parte di sè, e più aveva la sensazione di capire meglio.
Ma non riusciva ancora a dire cosa fosse il mare.
Cavò fuori la solita domanda:
“Che cosa è il mare?”
Un’ ultima ondata inghiottì ciò che restava di lei.
E proprio nell’ istante in cui scompariva, perduta nell’onda che la travolgeva e la portava chissà dove, la bambola esclamò:
“Sono io!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il principe senza fiaba

Il principe senza fiaba

C’era una volta un principe senza fiaba, che vagava disperato nel paese delle fiabe, alla ricerca di una storia dove poter fare la sua comparsa anche lui.
Non era facile, però: la Bella Addormentata aveva già il suo principe e così Biancaneve, Cenerentola, Pelle d’ Asino, la Sirenetta… c’ erano fin troppi principi nel paese delle fiabe.
Allora tentò il tutto per tutto:
salì sul suo cavallo magico e volò fino sulla terra, per ascoltare le fiabe che le mamme narravano ai loro bambini, sperando di trovarne una adatta per lui.
Tutto inutile!
Non solo erano sempre le stesse fiabe, ma erano sempre più piene di principi e re e magari si trattava di principi coraggiosissimi, capaci di combattere draghi spaventosi e tutto il resto!
Sconsolato, una sera si fermò vicino ad una stanzetta con la luce fioca, dove una mamma e il suo bambino stavano soli in silenzio.
La mamma veramente non era proprio in silenzio: piangeva piano e ogni tanto provava a dire qualche parola, ma non le riusciva di raccontare nessuna fiaba, perché il bambino era tanto malato e la mamma, sempre più triste, non poteva ricordare più nulla.

“Quanto sono stupido, a preoccuparmi tanto per una fiaba!” pensò il principe.

“Questa mamma ha motivi di tristezza assai più seri dei miei… se posso, proverò ad aiutarla.”
Per tranquillizzarla un po’, prese un pizzico di polverina del sonno e gliela passò sugli occhi… non appena la mamma li ebbe chiusi, si avvicinò alla culla e prese in braccio il bimbo.
“Vuoi venire con me, e volare con il mio cavallo magico?” chiese gentilmente.
“Ehh, Guh!” rispose il bimbo contento e partirono insieme.
Volarono su, fin nel cielo più alto, fino dalle stelle e tutte le stelline che incontravano li salutavano allegre.
“Che bel bambino!” dicevano le stelle.
“E’ il bambino più bello che abbiamo mai visto!

Posso prenderlo in braccio?”

Il principe rise e lasciò che la stellina più giovane prendesse in braccio il bimbo e subito tutte le altre furono lì attorno a ridere e a scherzare, perché le stelle sono sempre molto allegre e trovavano il principe molto carino e simpatico e il suo cavallo doveva essere certo il più veloce del cielo.
“Cos’è tutto questo chiasso?” esclamò d’improvviso la Luna, illuminando la notte con il suo faccione tondo e vide il bimbo che giocava in mezzo alle stelline, ridendo come loro.
“Via tutte, sciocchine!” s’arrabbiò la Luna.
“I bambini così piccoli a quest’ ora devono dormire: ci penserò io.”
E tutto d’un tratto, da quella grassona che era, si fece bellissima e sottile come una modella e con la forma giusta per prendere in braccio il bimbo e cullarlo dolcemente, mentre le stelline in coro intonavano la ninna nanna.
Era un coro così dolce che il bambino s’addormentò subito e s’addormentarono anche il principe ed il suo cavallo magico; dormivano così profondamente che si accorsero appena del rumore che fece il sole, sbadigliando per alzarsi: se ne accorsero invece le stelline, che subito presero a strillare:

“Il sole, il sole!

Scappiamo, abbiamo fatto tardi!”
“Sempre così, queste monelle!” brontolò la Luna.
“Cantano e ballano e non pensano mai a niente.
Per fortuna ci sono qua io: presto, bel principe, il piccino deve tornare a casa prima che la mamma si svegli.”
“Sì, signora Luna.” rispose il principe, con un inchino, perché, essendo un principe, era molto educato.
Riprese il bimbo e, veloce più del vento, lo riportò sulla terra, dove lo mise nella culla un istante prima che la mamma aprisse gli occhi.
“Ehe ! Ahh, Ohh!” disse il bimbo, per raccontare alla mamma dov’era stata quella notte, ma la mamma non l’ascoltò neppure.

“Piccolo mio, stai bene!” gridò tutta contenta, “Sei guarito, finalmente!”

Lo prese in braccio, lo riempì di baci e cominciò a cantare.
Il principe strizzò l’occhio al suo cavallo:
“Qualche bacetto spetterebbe anche a noi.
Questa mamma è proprio carina.”
“Andiamo a riposare!” lo esortò il cavallo magico, “Ci siamo stancati anche troppo.”
“Va bene, va bene,” acconsentì il principe, “ma questa sera torniamo, per aiutare un’ altra mamma con un bambino malato:
c’è più soddisfazione che a cercare una fiaba vuota.”
Il cavallo magico nitrì energicamente, per far capire che era d’accordo; e quella sera trovarono un bambino ancora più malato, e lo portarono sul fondo del mare, dove i cavallucci marini si misero in cerchio a fare la giostra solo per lui, mentre le ostriche e i granchi suonavano la musica con i loro gusci.
Da quella volta, il principe senza fiaba continua a tornare sulla terra, per portare i bimbi malati nei posti più belli del mondo delle fiabe; ed i bambini sono così contenti che quando tornano sono guariti, e non si ammalano più.

Brano senza Autore

La ricerca di Dio

La ricerca di Dio

Tre giovani avevano compiuto diligentemente i loro studi alla scuola di grandi maestri.
Prima di lasciarsi fecero una promessa:
avrebbero percorso il mondo e si sarebbero ritrovati, dopo un anno, portando la cosa più preziosa che fossero riusciti a trovare.
Il primo non ebbe dubbi:
partì alla ricerca di una gemma splendida ed inestimabile.
Attraversò mari e deserti, salì sulle montagne e visitò città fino a quando non l’ebbe trovata:

era la più splendida gemma che avesse mai brillato sotto il sole.

Tornò allora in patria in attesa degli amici.
Il secondo tornò poco dopo tenendo per mano una ragazza dal volto dolce ed attraente.
“Ti assicuro che non c’è nulla di più prezioso di due persone che si amano!” disse al primo amico. Si misero ad aspettare il terzo.
Molti anni passarono prima che quest’ultimo arrivasse.
Era infatti partito alla ricerca di Dio.
Aveva consultato i più famosi maestri di spiritualità esistenti sulla terra, ma non aveva trovato Dio.
Aveva studiato e letto, ma senza trovare Dio.

Aveva rinunciato a tutto, ma non era riuscito a trovare Dio.

Un giorno, stremato per il tanto girovagare, si abbandonò nell’erba sulla riva di un lago.
Incuriosito seguì le affannate manovre di un’anatra che in mezzo ai canneti cercava i suoi piccoli, che si erano allontanati da lei.
I piccoli erano numerosi e vivaci, e sino al calar del sole l’anatra cercò, nuotando senza sosta tra le canne.
Proseguì instancabile riconducendo sotto la sua ala fino all’ultimo dei suoi nati.
Allora l’uomo sorrise e decise di ritornare al paese.
Quando gli amici lo rividero, uno gli mostrò la gemma e l’altro la ragazza che era diventata sua moglie.
Poi, pieni di attesa, gli chiesero:
“E tu, che cosa hai trovato di tanto prezioso?

Deve essere qualcosa di magnifico se hai impiegato tanti anni.

Lo vediamo dal tuo sorriso…”
“Ho cercato Dio.” rispose il giovane.
“E lo hai trovato?
È per questo che hai impiegato così tanto tempo?” chiesero i due, sbalorditi.
“Sì, l’ho trovato.
E se ho impiegato tanto tempo era perché commettevo l’errore di andare a cercare Dio, mentre in realtà, era Lui che stava cercando me.”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il piccolo re solitario

Il piccolo re solitario

Lontano, lontano da qui, in un mare dal nome strano, c’era una piccola isola, con le spiagge bianche e le colline verdi.
Sull’isola c’era un castello e nel castello viveva un piccolo re.
Era un re abbastanza strano, perché non aveva sudditi.
Nemmeno uno.
Ogni mattina il piccolo re, dopo aver sbadigliato ed essersi stiracchiato, si lavava le orecchie e si spazzolava i denti; poi si calcava in testa la corona e cominciava la sua giornata.
Se splendeva il sole, il piccolo re correva sulla spiaggia a fare sport.
Era un grande sportivo.

Deteneva infatti tutti i record del regno:

da quello dei cento metri di corsa sulla sabbia, al lancio della pietra, a tutte le specialità di nuoto, eccetto lo sci acquatico, perché non trovava nessuno che guidasse il reale motoscafo.
E dopo ogni gara, il re si premiava con la medaglia d’oro.
Ne aveva ormai tre stanze piene.
Ogni volta che si appuntava la medaglia sul petto, si rispondeva con garbo:
“Grazie, maestà!”
Nel castello c’era una biblioteca, e gli scaffali erano pieni di libri.
Al re piacevano molto i fumetti d’avventure.
Un po’ meno le fiabe, perché nelle fiabe tutti i re avevano dei sudditi.

“E io neanche uno!” si diceva il re, “Ma come dice il proverbio:

è meglio essere soli che male accompagnati.”
E quando faceva i compiti, si dava sempre dei bellissimi voti.
“Con i complimenti di sua maestà!” si dichiarava.
Una sera, però, sentì un certo nonsoché che lo rendeva malinconico; camminò fino alla spiaggia, deciso a cercare qualche suddito, e pensava:
“Se solo avessi cento sudditi!”
Allora proseguì sulla spiaggia verso destra, ma la riva era completamente deserta.
“Se solo avessi cinquanta sudditi!” disse il re; tornò indietro e camminò sulla spiaggia verso sinistra fino a che poté, ma la riva era ugualmente deserta.
Il re si sedette su uno scoglio ed era un po’ triste; e di conseguenza non si accorse nemmeno che quella sera c’era un magnifico tramonto.

“Se solo avessi dieci sudditi, probabilmente sarei più felice!”

Notò lontano sul mare alcuni pescatori sulle loro barche e si rallegrò.
“Sudditi,” gridò il re, “sudditi, da questa parte, ecco il re, urrà!”
Ma i pescatori non lo sentirono, e tutto quel gridare rese rauco il re.
Tornò a casa e scivolò sotto la sua bella trapunta colorata; si addormentò e sognò un milione di sudditi che gridavano “urrà” nel momento in cui lo vedevano.
Non dormì a lungo.
Un vociare forte e disordinato lo svegliò.
Il piccolo re non aveva sudditi, ma aveva dei nemici accaniti.

Erano i pirati del terribile Barbarossa.

Sembravano sbucare dall’orizzonte, con la loro nave irta di cannoni, con i loro baffi spioventi e il ghigno feroce, e i coltellacci fra i denti.
“All’arrembaggio!” gridava Barbarossa, il più feroce di tutti.
E i trentotto pirati entravano urlando nel castello e facevano man bassa di tutto quello che trovavano.
A forza di scorrerie, nel castello era rimasto ben poco di asportabile, così i pirati avevano preso l’abitudine di riportare qualcosa ogni volta per poterlo rubare nella scorreria successiva.
Il piccolo re aveva una paura tremenda dei pirati e soprattutto del crudele Barbarossa che ogni volta sbraitava:
“Se prendo il re, lo appendo all’albero della nave!”
Così, quando sentiva arrivare i pirati, si nascondeva in uno dei tanti nascondigli segreti del castello. Dentro, rannicchiato nel buio, aspettava la partenza dei pirati.

Era così da tanto tempo ormai, e il piccolo re non si sentiva affatto un fifone.

“Se avessi un esercito,” pensava, “Barbarossa e la sua ciurma non la passerebbero liscia!”
Un mattino, il re si svegliò a un suono completamente nuovo.
Lo ascoltò e si rese conto che non aveva mai udito un suono simile.
“Forse sono arrivati i miei sudditi!” pensò il re, e andò ad aprire la porta.
Sul gradino della porta sedeva un enorme gatto arancione.
“Buongiorno,” disse il re con grande dignità, “io sono il re, urrà!”
“E io sono il gatto!” disse il gatto.

“Tu sei mio suddito!” disse il re.

“Lasciami entrare,” ribatté il gatto, “ho fame e ho freddo!”
Il re lasciò entrare il gatto nella sua casa, e il gatto fece un giro intorno e vide quanto era grande e confortevole:
“Che bellissima casa hai!”
“Sì, non è male!” disse il re; e improvvisamente si accorse di tutte le cose che non aveva mai visto in molti anni.
“E’ perché io sono il re!” disse il re; ed era molto soddisfatto.
“Io resterò qui!” decise il gatto, e si sistemò nella casa per vivere con il re; e il re fu felice perché ora aveva finalmente un suddito.
“Dammi del cibo!” disse il gatto, e il re corse via immediatamente per andare a prendere cibo per il gatto.
“Fammi un letto!” disse il gatto; e il re corse alla ricerca di una trapunta e di un cuscino.
“Ho freddo!” disse il gatto; e il re accese un fuoco affinché il gatto potesse scaldarsi.

“Ecco fatto, signor Suddito!” disse il re al gatto.

E il gatto rispose: “Grazie, signor Re!”
E il re non notò neppure che, sebbene fosse il re, serviva il gatto.
Il tempo passava e il re era felice in compagnia del gatto, e il gatto mostrava al re ogni cosa che il re nella sua solitudine era riuscito a dimenticare:
il tramonto, la rugiada del mattino, le conchiglie colorate e la luna che scivolava attraverso il cielo come la barca dei pescatori sul mare.
Qualche volta accadeva al re di passare davanti a uno specchio, e quando vedeva la sua immagine diceva:
“Il re, urrà.”
E si salutava.

Non era più il campione assoluto dell’isola.

Il gatto lo batteva nel salto in alto, in lungo e nell’arrampicata sugli alberi; ma il re continuava a eccellere nel nuoto e nel lancio della pietra.
Un mattino, il re sentì bussare alla porta del castello.
Corse ad aprire, pensando:
“Arrivano i sudditi!”
Si trovò davanti un piccoletto con la faccia allegra.
Era un pinguino, con la camicia bianca e il frac di un bel nero lucente.
“Buongiorno,” disse il re con grande dignità, “io sono il re, urrà.”
“E io sono un pinguino!” disse il pinguino.
“Tu sei mio suddito!” disse il re.

“Lasciami entrare,” ribatté il pinguino, “ho fame e ho i piedi congelati.

Sono stufo di abitare su un iceberg!”
Il re lasciò entrare il pinguino nella sua casa e gli presentò il gatto, che fu molto felice di fare conoscenza con il pinguino.
“Penso che mi fermerò qui con voi.” disse il pinguino.
Il re ne fu felicissimo.
Adesso aveva due sudditi.
Corse a preparare una buona cenetta per il pinguino, mentre il gatto portava al nuovo ospite due soffici pantofole.
“Io farò il maggiordomo.
Mi ci sento portato!” dichiarò il pinguino, “Terrò in ordine il castello e servirò gli aperitivi in terrazza!”

Così furono in tre a guardare i tramonti.

Ed era ancora meglio che in due.
Il re non vinceva più molte gare sportive, perché il pinguino lo batteva nel nuoto e nei tuffi.
Scoprì, sorprendentemente, che si può essere contenti anche se non si vince sempre.
Ma una sera, lontano all’orizzonte, apparve la nave del pirata Barbarossa.
“Presto scappiamo a nasconderci!” gridò il re.
“Neanche per sogno!” disse il gatto, “Siamo in tre e possiamo battere quei prepotenti!”
“Certo!” ribatté il pinguino, “Basta avere un piano!”
“Nell’armeria del castello c’è l’armatura del gigante Latus!” disse il re.
“Bene!” disse il gatto, “Ci infileremo nell’armatura e affronteremo i pirati!”
“Il gatto si metterà sulle mie spalle, e il re sul gatto, così potrà brandire la spada.” continuò il pinguino.

“Approvo il piano!” concluse il re.

Così fecero.
Quando approdarono alla spiaggia, i pirati rimasero paralizzati dalla sorpresa.
Verso di loro, a grandi passi ondeggianti, avanzava un gigante che brandiva un enorme e minaccioso spadone.
“È tornato il gigante Latus!” gridarono, “Si salvi chi può!”
E si buttarono in acqua per raggiungere la nave.
Da allora nessuno li vide mai più.
Sulla spiaggia dell’isola il piccolo re, il gatto e il pinguino si abbracciarono ridendo.
Poi il gatto e il pinguino sollevarono il re e lo gettarono in aria gridando:
“Re è il migliore amico che c’è, urrà!”

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero

Le due sorgenti (Dare)

Le due sorgenti (Dare)

La montagna si eleva verso il sole.
Ma la montagna pesa, è fatta di sassi.
In qualche recesso delle sue viscere nacquero un giorno due piccole sorgenti d’acqua limpida che cercavano di uscire all’aperto.
Ma la montagna non cedeva.
Le opprimeva, le soffocava.
Durò un bel pò di tempo, finché, facendosi largo a poco a poco, le sorgenti riuscirono a venire alla luce ai piedi della montagna.
Com’erano stanche!
Ma non c’era tempo per riposarsi.
Appena erano scaturite dalla terra sentirono delle grida provenire dal muschio, dall’erba, dai fiorellini, dalle rose alpine:

“Dateci da bere! Dateci da bere!”

“Fossi matta!” disse la prima sorgente “Ho faticato senza sosta laggiù sottoterra, mentre voi, pigri, ve ne stavate al sole.
Non vi darò proprio niente!”
“Non ci darai niente?” disse il muschio piccato “E allora noi non ti lasceremo passare!”
“Ti sbarreremo la strada con le nostre numerose radici!” dichiarò l’erba.
“Ti copriremo, così nessuno ti troverà!” minacciarono i cespugli di rose alpine e di rovo.
La seconda sorgente fu più condiscendente.
“Bevi, sorella erba, però fatti da parte perchè io possa proseguire il mio cammino!”
Bevvero un poco anche i cespugli ma si tennero fuori dalla corrente.
Il muschio succhiò l’acqua soltanto da una parte.
“A me basta solo inumidire la radice.” disse la rosa alpina.

“Corri pure avanti!”

La sorgente correva…
Dava da bere a tutte le piante e tutte le cedevano il passo.
E siccome correva molto rapidamente, la gola della montagna dalla quale usciva si puliva e si allargava sempre più.
La sua acqua era fresca e limpida come cristallo.
Rotolava giù dalla montagna nella valle, saltando sopra i sassi, bagnando i prati, lambendo le radici dei salici e più si dava a tutti e più diventava forte e impetuosa.
Lei stessa non sapeva come.
Le piante l’amavano e lasciavano che altre sorgenti s’unissero a lei.
Così essa divenne un grande fiume nel quale vivevano numerosissimi pesci e navigavano tanti battelli.
Alla fine arrivò al mare.
Quando giunse alla foce, l’azzurro padre Oceano la prese fra le sue braccia e la baciò sulla fronte.

“E tua sorella?

Dov’è tua sorella sorgente?” chiese.
“Ah, padre!
Purtroppo è diventata paludosa, marcia e puzzolente!” rispose la sorgente.
“Così è la vita, figliola mia!” disse il padre Oceano.
“Tua sorella non voleva dare agli altri ciò che aveva ricevuto.
Vedi?
Anch’io oggi ti ricevo in restituzione del vapore che da me è salito verso la montagna.
La vita è dare.
Tenere per se è la morte!”

Brano senza Autore, tratto dal Web